di Mattia Grigolo
Si rannicchia accanto al cane e lo osserva morire.
Si sente così pesante. Appoggia un palmo sullo stomaco dell’animale, le dita scivolano tra i peli ispidi. Percepisce il movimento, blando e senza più un ritmo, del suo respiro.
“Quando andrai, amico mio?”
Lui e suo padre sono nel retro del furgone, fetente del cane e della sua malattia. Sotto di loro una grossa coperta sporca dal viaggio; questo, l’ultimo. Il cane lo cerca con lo sguardo, spostando solo gli occhi che, per una frazione di secondo, nel buio s’illuminano di verde alieno.
Si cercano. Si salutano. Poi il cane muore.
Suo padre apre il portellone posteriore. La luce del pomeriggio investe l’interno. L’uomo è un gigante riflesso in un’ombra nera.
Gli chiede se ha pianto.
Il ragazzo scuote la testa.
L’uomo sale nel vano del furgone e gli porge la mano. È fredda nonostante il bollore della giornata. Lo aiuta ad alzarsi, poi si accovaccia al fianco del cane, gli prende la lingua e gliela rimette tra le fauci. Gli serra prima un occhio e poi l’altro, dolcemente. Lo avvolge nella coperta sulla quale è sdraiato. Dice al ragazzo che lo devono sollevare insieme. Potrebbe tranquillamente prenderlo e scaricarlo dal furgone da solo, ma non lo fa.
“Prendilo dalle zampe davanti. Ho trovato un posto.”
“Non lo seppelliamo a casa?”, chiede il figlio al padre.
“Casa è lontana.”
Restano qualche minuto ad osservare la terra smossa sotto la quale è seppellito il cane. Il padre si asciuga la fronte con la manica della camicia. Il ragazzo non piange.
Al tramonto si rimettono in viaggio, entrambi silenziosi come sempre sono stati da che si conoscono. Comunicano attraverso la quiete dei loro gesti. Il ragazzo sente ancora l’odore del cane, ma non percepisce più la sua presenza nel vano. Avverte una solitudine rassegnata, ma appagante.
Il padre si ferma a un distributore di benzina. Apre la portiera e scende. Attraverso il parabrezza, il ragazzo osserva l’andatura zoppa dell’uomo. Dopo qualche minuto si addormenta.
Si sveglia e si guarda attorno, incantato. Il padre sta ancora guidando, ha preso una sterrata colma di buche e sassi. I fari accendono il buio e le falene. Si ferma poco dopo, nel nulla. Spegne, scende e il ragazzo lo segue.
Salgono nel vano, lasciando il portellone aperto per liberarlo dal cattivo odore.
Il padre fa rotolare una scatola di latta verso il figlio. È già aperta, ma non abbastanza da lasciarne uscire il contenuto. Il ragazzo finisce di aprirla usando un cucchiaio da campeggio. Würstel sottovuoto.
Domanda al padre quanto sono lontani. Il padre risponde almeno una settimana, poi gli chiede se c’è qualcuno che lo aspetta a casa.
Il ragazzo scuote la testa.
“Perché ogni tre giorni mi chiedi quanto manca?”
Un tempo, a casa ci sarebbe stata mamma ad aspettarli, ma era il tempo in cui non dovevano partire.
Riprendono la strada all’alba e si fermano solo al tramonto, affittano una camera povera di mobilia in un ostello vuoto, in una cittadina fantasma affacciata sul mare.
Prima di mettersi a letto, il padre dice al figlio: “Domani lo scegli tu”.
“Anche il nome?”
Il vecchio è seduto su una sedia di plastica all’esterno di un alimentari. Chiede l’età al ragazzo.
“Quindici”, dice lui.
“Cosa fai qui?”
“Scelgo un cane.”
Allora il vecchio alza la testa oltre le spalle del ragazzo, che si accorge dell’arrivo del padre. Indossa una giacca sgualcita con le maniche arrotolate insieme a quelle della camicia. Sul petto un logo giallo: una testa di pastore tedesco stilizzata. Tra le mani regge il frustone a rilascio rapido, assicurata alla cintura una museruola di metallo.
“Cerchiamo cani vaganti e li portiamo al canile”, dice il padre al vecchio.
“I randagi. Quale canile?”
“Il più vicino.”
“Ci sono molti bastardi randagi da queste parti, soprattutto sul lungomare. Vanno a caccia dei rifiuti che lasciano i turisti.”
“Allora andremo sul lungomare”, dice il padre.
Trovano un meticcio di taglia media che gironzola attorno ad alcune auto parcheggiate. Scendono dal furgone e il ragazzo dice che quello potrebbe andare bene. Ha scelto.
Il pelo è color caffè, la coda mozza, segno che il cane ha avuto un padrone. Gli manca anche parte dell’orecchio sinistro, indizio che ora non lo ha più e che ha dovuto lottare contro i suoi simili per sopravvivere.
Il padre dice al ragazzo di tenere aperto il portellone sul retro. Indossa dei guanti spessi, robusti, lunghi fino al gomito. Abbassa le maniche della camicia e della giacca. Cammina lento dietro il bastardo con il frustone nascosto. Il cane se ne accorge e abbassa l’orecchio destro. Infila la coda tra le gambe, è impaurito. L’uomo si inginocchia e dalla tasca posteriore estrae una grossa fetta di prosciutto piegata in quattro. Il cane si avvicina un poco, abbassa il muso a sfiorare l’asfalto. Si avvicina ancora, timoroso. Quando è a due metri dal braccio teso, dal palmo e dalla carne, il padre estrae il frustone e con un gesto secco passa il cappio intorno al collo del randagio. Poi blocca la posizione. Il cane guaisce, ma non abbaia, non ringhia. La museruola non serve.
Lo trascina verso il furgone senza fatica, nonostante il cane faccia resistenza puntandosi con le zampe.
Il ragazzo chiude il portellone.
Sale nell’abitacolo e pensa quale nome regalargli.
Dopo altri giorni di viaggio, il padre e il figlio sono a casa. Nel piccolo giardino sul retro della villetta, il ragazzo guarda il cane sostare sull’entrata di una cuccia da esterno costruita dal padre. Annusa l’odore di altri cani prima di lui e non entra. Ha sempre la coda tra le gambe, si aggira per il giardino impaurito.
Le regole sono chiare, lo sono sempre state. Lui e il padre fanno quello che hanno sempre fatto per un motivo preciso: imparare la privazione.
“Crescere significa essere forti. Sai di cosa sto parlando?”, gli ha detto un giorno.
Il ragazzo ha scosso la testa.
“Significa controllarsi e per controllarsi occorre rinunciare. Sai qual è la più grande privazione dell’uomo?”
Il ragazzo ha scosso ancora la testa.
“L’affetto.”
Il ragazzo ha iniziato a viaggiare con il padre un anno dopo la morte della madre. Sceglievano i randagi e se ne privavano: il ragazzo doveva imparare a non affezionarsi ai cani.
All’inizio i viaggi sono brevi e a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro. Una settimana, poi due. Poi sempre più distanti fra loro, quindi sempre più difficili da affrontare. Perché ogni viaggio coincide con una rinuncia.
È per questo che il ragazzo sa che non si può affezionare a questo cane. L’ennesimo.
Passano quattro mesi, il cane ha preso confidenza con la casa. Ha timore dell’uomo perché non gli ha mai dato confidenza, ma lo rispetta perché lo nutre. Invece, si è legato al ragazzo, forse perché è nella natura del cane stesso cercare una guida, un padrone, un dio a cui essere fedele. Il ragazzo ci ha provato, come sempre, a dettare le distanze. Gli ha dato un nome che non gli piace, ha scelto quello che meno gli si addice, cacofonico. Però il ragazzo sa che è difficile, perché ha imparato che una corazza, seppur vistosa e protettiva, è pesante da indossare.
Non ci è mai riuscito. Ha imparato a mentire, questo sì, al padre e spesso anche a se stesso, ma non può eludere la realtà. La realtà è diversa. Si può essere una costruzione di se stessi, ma la verità è lo specchio che ordina di spogliarsi di tutto.
Il padre dice al ragazzo di prepararsi a partire di nuovo. Glielo comunica sempre il giorno precedente. Il ragazzo sa cosa deve fare: preparare il retro del furgone. Chiede al padre quanto staranno via e poi calcola quanto cibo in scatola occorre e lo compra con i soldi che gli lascia.
Ciò che il padre non sa è che il figlio ha un’altra regola: la notte prima di partire, quando ogni cosa è buia e zitta, il ragazzo va dal cane. Si siede accanto a lui e si costringe a non accarezzarlo. Anche se il cane si avvicina, cercandolo, lo respinge. Resta con lui a lungo, guardandolo fino a che non si tranquillizza e cede al sonno effimero degli animali.
Il ragazzo ha capito che al padre piacciono gli spazi aperti. Talvolta si ferma per ore davanti a un’alba o un tramonto, senza dire nulla guarda avanti a sé. Il ragazzo ha intuito anche che il padre sta scappando. Da se stesso, dal ricordo di mamma. Il dolore immenso della perdita l’ha reso debole e la debolezza è stata sostituita dai meccanismi di difesa. In quei momenti pensa ancora di volergli bene.
È compito del ragazzo pascolare il cane, suo padre gli ha insegnato a percepire e metabolizzare la distanza proprio durante le lunghe passeggiate che il ragazzo è costretto a fare tra i campi o in riva al mare. È proprio durante il viaggio che il cane si affeziona ancora di più al ragazzo. Questo il padre lo sa.
Il viaggio di ritorno coincide con la privazione del cane e una nuova caccia, come la chiama lui. Un cane se ne va e un altro arriva. Nel centro esatto del viaggio c’è il rito che, per il ragazzo, coincide sempre con un nuovo inizio. La fine e l’inizio che si incontrano al termine di un cerchio che è il viaggio stesso.
L’uomo mischia la cicuta insieme alla carne, all’acqua e all’alcol.
L’odore della carne nasconde quello del liquore che nasconde quello del veleno. La cicuta ha un odore e un sapore troppo intenso per un cane. Non mangerebbe nulla con un sapore del genere. Impasta la carne nella ciotola di metallo. La bestia sposta l’unico orecchio rimastogli e alza il muso. Il ragazzo gli dice “Buono, a te dopo. Prima mangiamo noi”.
Il ragazzo afferra, prima che lo faccia l’uomo, una latta di würstel. Con un coltello svizzero finge di aprirla per metà. In realtà, la confezione è già stata aperta di nascosto qualche ora prima, proprio dal ragazzo.
La fa rotolare verso l’uomo, poi prende un’altra latta, la apre e si mettono a mangiare.
Il ragazzo prega un dio in cui non ha mai creduto: chiede che il padre non percepisca il sapore del veleno, che non si accorga che ciò di cui si sta cibando è il suo stesso dolore.
L’uomo chiede al figlio se piangerà. Il figlio scuote la testa. L’uomo beve un sorso dalla bottiglia di liquore poi, inaspettatamente, la porge al ragazzo che termina di masticare prima di afferrarla e bere. È dolce e brucia in gola. Tossisce.
Poi anche l’uomo comincia a tossire, annaspare. Allora il ragazzo capisce che la cicuta che ha iniettato nel cibo del padre è entrata in circolo.
L’uomo poggia con la schiena contro la parete del vano. Rantola senza ritmo. È paralizzato. Il ragazzo sa che, anche se fosse in grado, l’uomo non biasimerebbe il figlio per ciò che ha fatto. Così il ragazzo si avvicina e si rannicchia accanto a lui. Aspettando che muoia.
Ore dopo il cane si alza, si avvicina alla ciotola perché vuole mangiare. Il ragazzo lo afferra e lo porta a sé, dolcemente. Il cane si accuccia tra il padre e il figlio.
Mattia Grigolo vive a Berlino da tempo immemore. Ha fondato Le Balene Possono Volare, progetto di laboratori ed eventi creativi, il magazine di approfondimento Yanez e la rivista letteraria Eterna. Ha pubblicato e sta per pubblicare racconti e altro su inutile, ‘Tina, Crack, L’Inquieto, Not, Rolling Stone, Cedro Mag, Il Mucchio, Yanez, Bomarscé.
Kevin Niggeler è illustratore editoriale e vive a Milano. Dopo aver conseguito una laurea in arti visive allo IED, ha proseguito con gli studi iscrivendosi a Mimaster. Dopo questa esperienza ha iniziato a collaborare con Donna Moderna, L’Espresso, Monocle (Londra), La Stampa, Menelique e altri ancora.