Gita a Venezia

di Alex Guerra

Paolino non aveva dormito tutta la notte, sentendosi già tra le facciate colorate di Venezia – bianco opale, porfido rosso, verde serpentino – con il letto che dondolava come la gondola, c’erano pure il rumore del remo che schiaffeggiava l’acqua e il canto del gondoliere. Disegnava sotto le palpebre la Basilica di San Marco, le sculture a foglie di palme e gigli, grappoli d’uva e granati, uccelli in riposo o svolazzanti tra i rami, la trama di piume e di germogli che legava il tutto nella parte inferiore delle cinque grandi arcate e i mosaici che ne ricoprivano la parte superiore. Sognò i tesori custoditi al suo interno. Ogni dettaglio era scolpito dalle parole della mamma.
Erano partiti che faceva ancora buio, a metà strada la mamma aveva dato il cambio a papà. Paolo sentì le gambe intorpidite quando smontò dalla macchina e un leggero mal di testa, papà lamentava male al culo massaggiandosi il fondoschiena in mezzo al parcheggio e malediceva il cielo coperto da un foglio di nubi, che forse avevano fatto tutta quella strada per niente. La mamma scaldò l’atmosfera con la descrizione dell’interno tutto d’oro della Basilica. L’ultimo tratto lo fecero in corriera, in piedi, così schiacciati che a Paolo mancava l’aria, là dentro pareva vigesse la legge del più forte anche per respirare, e lui era il più indifeso. La mamma con il braccio teneva discosto da lui un signore corpulento che altrimenti lo avrebbe schiacciato contro la colonnina di sostegno; il papà declamava soddisfatto, come se la notizia migliorasse la situazione, la sua astuzia: parcheggiando a Marghera avevano pagato metà rispetto ai parcheggi di Piazzale Roma, contando il biglietto della corriera, peccato per il tempo di merda. La mamma fulminò il marito con lo sguardo, poi accarezzò la testa del suo Paolino con la mano libera dicendogli che tra poco sarebbero arrivati, pareva non le costasse alcuno sforzo respingere un uomo con il doppio dei suoi chili, e ridipinse a parole i sette pilastri lungo le pareti del portico. La mamma non sbagliavamai: il gruccione era davvero l’arlecchino degli uccelli, si scorge l’arcobaleno se si esce appena finita la pioggia, mangiando miele è assicurato lo smorzamento del mal di gola. La nausea scemò man mano che si figurava gli angeli scettrati con vesti lunghe sino ai piedi stagliati su un fogliame dallo sfondo d’oro. Scesero che il cielo era precipitato nel grigio scuro, che non si distingueva neanche più il disco pallido del sole e il vento mollava certi ceffoni… ma la mamma lo riparava con il corpo. Oltrepassata la fila di corriere sbucarono in un rettangolo di asfalto con un chiosco di giornali, a forma di scatola ammaccata, e davanti i binari del tram. Attendevano una signora con il volto color pozzanghera avvolto in un velo nero e il corpo di rospo in un lungo vestito, anch’esso nero, e un anziano smunto con i capelli bianchi, che ci poteva ballare dentro quel cappotto verde vomito, una sporta della spesa stracolma in una mano e una sacca di tela nell’altra, come due testicoli mosci. In fondo, dopo la colonna di taxi parcheggiati, un branco di ragazzi in giubbotto di pelle o in felpa, il cappuccio calcato in testa, rideva sguaiato. Paolo si ancorò alla mano della mamma. Dove sono le cupole bianche della basilica? E le pietre colorate?
La mamma aveva smesso di guardarlo negli occhi, la sua attenzione era al cielo e un tentennamento aveva incrinato la sua voce di solito profonda e sicura. Tentennò anche Paolino, soprattutto alla vista dei chioschi e dei baldacchini sul rialzo in cui uomini e donne dalla pelle scura, o olivastra, vendevano panini o souvenir che non avevano niente di diverso dai furgoncini del giorno di mercato. Quando cominciò il ponte di vetro dai lunghi gradini, notò che ci volevano due passi di mamma e papà e quattro dei suoi per salirli. Sotto, l’acqua del canale non era verde smeraldo, ma di un blu tendente al grigio e ribolliva come i fossi quando straripano. Passò una barca a motore che insieme alla scia di schiuma lasciò dietro di sé un forte odore di nafta; il guidatore ruggì una bestemmia contro la pioggia proprio mentre passava sotto il ponte. Le gocce gelide gli entravano come tanti piccoli spilli nel colletto della giubba.
«Adesso entriamo nelle calli!», esclamò la mamma, ma era distratta a cercare qualcosa in alto sul muro –un ammasso compatto di edifici di mattoni rossi o dall’intonaco slavato, tipo carcassa arenata, che cominciava da lì e fino a perdita d’occhio a destra – gli rivolse un sorriso ma le uscì spezzato, simile a quello delle bambole di stoffa che stanno nella vetrina del salotto di nonna. Suonava molto più sincero suo padre che inveiva contro Meteo.it che aveva “cileccato” in pieno. Le calli, da come ne aveva parlato la mamma prima di partire, erano le viuzze tipiche di Venezia e per tutto il loro corso si affacciavano splendidi palazzi. Una selva di ombrelli aperti ostacolava la visuale, negli spiragli Paolo leggeva solo insegne di ristoranti, negozi o hotel, per lo più a due o tre stelle. Avanzava a rallentatore, pigiato peggio che in corriera, qualcuno di fretta urtava e dava spallate per guadagnare posizioni. Quando si fermarono davanti a una bottega in cui il padre entrò per prendere degli ombrelli – la mamma lo teneva al riparo sotto il suo giubbotto aperto – la folla dietro avanzava senza pietà, qualcuno anzi bestemmiava e gridava «levatevi dai coglioni». Finalmente il padre uscì con due ombrelli, uno blu per sé e uno rosso per la moglie e il figlio, ma la pioggia li aveva ormai inzaccherati entrambi. «Dopo beviamo una cioccolata calda», diceva la mamma mentre erano di nuovo incolonnati, «c’è una pasticceria con una grande cascata di cioccolato».
Paolino non rispose, batteva i denti, il vento incanalato dalla calle congelava i vestiti umidi, aveva di nuovo la nausea. La mamma lo strattonava di qua e di là tenendolo per la manica dellagiubba. Cercò di nuovo qualche segnale che Venezia c’era e brillava di colore, le cupole degli ombrelli ora vorticavano come chiome agitate dal vento. Inciampò su un gradino, qualcuno lo spinse. La mamma lo sollevò per il braccio. «Ti sei fatto male, Paolino?». Dopo tre gradini si fermarono. Papà imprecò, ci mancava solo un ingorgo. «Paolino, stai bene?» Paolino sentì la voce di mamma vicino all’orecchio. Imprecavano anche alle sue spalle. E più avanti. Alcune lingue Paolo non le capiva, ma dal tono dovevano essere imprecazioni. «Dai che saliamo sul ponte di Rialto» incalzò la mamma, questa volta gli aveva sollevato il viso con la mano libera, l’altra tesa in alto reggeva l’ombrello, sembrava aver ritrovato il suo entusiasmo. Paolino allora si guardò intorno: corpi ammassati, neanche più ombrelli! Chiese ai genitori di essere sollevato, la mamma negò la richiesta: poteva prendersi un malanno, già tramava tutto. Paolino almeno il ponte voleva vederlo, così il papà passò l’ombrello alla moglie, anche questa mi tocca, e lo issò tendendo dritte le braccia: tre colonne di ombrelli confluivano in una più grande a destra – come quelle di macchine che trovano quando vanno in vacanza – gli ombrelli nascondevano anche le balaustre e da lassù il vento e l’acqua erano pugni sul viso. Si fece rimettere a terra. «Contento adesso? Ci siamo inzuppati abbastanza?» lo rimproverò papà. «Non prendertela con lui, ha più motivi di te per essere arrabbiato» lo difese la mamma «vedrai che dentro la Basilica e al Palazzo Ducale non ci saranno ombrelli aperti».
L’ingorgo dopo un pezzo si sciolse ma la pioggia era aumentata. Dopo un altro pezzo arrivarono in un’ampia piazza tutta circondata da portici, intasata di turisti e ombrelli peggio delle calli. Piccioni e gabbiani, grigi e fradici come ratti, si scannavano per una pagnotta. E poi c’era una grande chiesa con grandi cupole bianche. Ecco San Marco. La mastodontica facciata bianca, che mamma aveva descritto di un alabastro chiaro come l’ambra e delicato come l’avorio – appariva dello stesso bianco smorto dei palazzoni visti al loro arrivo, e le vene azzurre delle colonne di San Marco, che dovevano apparire e scomparire a seconda dell’angolatura da cui le si guardava, non si vedevano proprio nel sudario di pioggia. Il papà inveì contro la fila davanti alla Basilica: un serpentone multicolore che pure attorcigliato era più lungo della Basilica stessa,  la coda curvava ad angolo retto dietro l’alto campanile.
Paolo fu preso dai brividi, i genitori lo portarono in un bar coi tavolini e le sedie bianche, tutte a ghirigori, e gli ordinarono una cioccolata calda. Presero posto dentro.
Nessuna cascata di cioccolato gorgogliava.
La mamma spiegò che quello non si chiamava bar, bensì cafè ed era un cafè antico, che in passato frequentavano solo i veri signori. La sera, nel palchetto appena fuori, un’orchestrina intratteneva la rispettabile clientela. 
Paolino non voleva guardare oltre la vetrina, non guardò nemmeno la clientela vestita non diversamente da loro. 
Non cercò gli occhi della mamma. Fissava le volute di vapore che salivano dalla tazza, simile a quelle del servizio di nonna; girava e rigirava il cucchiaino nella bevanda color fanghiglia, costata una cifra indecente, come seguitava a ripetere papà, senza mandar giù neanche un sorso.

Alex Guerra è nato nel 1994. Abita a Breganze, in provincia di Vicenza. Diplomato in Elettronica e telecomunicazioni, lavora come operaio in una ditta di imballaggi flessibili. Tra un turno e l’altro cerca di laurearsi in Lettere moderne all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Suoi racconti sono usciti sulle riviste Blam, Spore e Pastrengo.

Marco Minto, un passato a masticare Economia e Statistica, ha iniziato a dedicarsi totalmente all’arte nel 2020. A causa della pandemia e della  quarantena forzata nei luoghi dell’infanzia, ritrova la tela e i pennelli del nonno ed è magia al primo tocco, il passaggio del testimone. In pochi mesi approda alla D’E.M. Venice Art Gallery di Venezia, e per Clipper realizza una limited edition di accendini interamente dedicata a Venezia. Tutta la sua arte ruota attorno alla Serenissima, onnipresente in tutte le sue opere.